Ci sono storie per un cronista che segnano una carriera. Ci sono storie che entrano nel cuore più di altre. E’ la vita di chi fa questo mestiere. Abituati a raccontare ogni atrocità e adusi a schermarsi per non lasciarsi prendere la mano da un giustizialismo che un cronista, per antonomasia osservatore attento e non giudice, non deve avere. Ma ogni tanto quello schermo viene oltrepassato. E’ successo con la vicenda legata all’omicidio del maresciallo Giuliano Guazzelli. Di quella storia di morte, proseguita solo nelle aule dei processi, ho seguito decine di udienze da Agrigento a Palermo e ho visto sul banco degli imputati sia Stiddari che boss di Cosa Nostra. Ricordo ancora una telefonata fatta da Riccardo Guazzelli, figlio del maresciallo ucciso. Me la passarono in redazione, al “Giornale di Sicilia”: era il 1997. Risposi rilassato perché non mi aspettavo fosse lui, ma dall’altra parte mi arrivarono improperi a valanga: non riuscii nemmeno a parlare tanta era la foga dall’altro capo della cornetta. Il giorno prima dell’ultima udienza, che doveva sancire pesantissime condanne in Corte d’Appello a carico di presunti Stiddari, avevo scritto sul “Giornale di Sicilia” che quegli imputati dovevano essere assolti perché loro con il delitto Guazzelli non c’entravano nulla. Già al tribunale ad Agrigento, la mattina dell’uscita dell’articolo, avevo avuto una discussione con un giudice che mi rimproverava di avere scritto cose che non potevano essere vere. Eppure io avevo letto altro. L’unico errore fatto dagli inquirenti forse era stato quello di non avvisare, anche in maniera informale la famiglia Guazzelli. Giovanni Brusca, Angelo Siino e Francesco Paolo Anselmo. Furono questi i tre collaboratori di giustizia che nel 1997 fornirono per primi, alla Direzione distrettuale antimafia, nuove rivelazioni che ribaltarono lo scenario dell’omicidio del maresciallo dei carabinieri, Giuliano Guazzelli. In tre distinti interrogatori i pentiti misero in discussione il costrutto accusatorio che, in primo grado consentì l’emissione delle pesanti condanne a carico dei presunti stiddari Gaetano Puzzangaro, Diego Provenzani,(questi primi due all’ergastolo), Ignazio Allotto e Gioacchino Di Rocco. Brusca, Siino, e Anselmo dissero: «A uccidere il sottufficiale dell’Arma, non fu la stidda, ma Cosa Nostra». I verbali d’interrogatorio furono inseriti dal procuratore generale Santi Consoli, nel processo che si stava tenendo in Corte d’Assise d’Appello. Proprio Consolo chiese di fermare il processo, ormai giunto in conclusione, perché voleva conoscere delle nuove rivelazioni fatte da alcuni pentiti. L’avvocati della famiglia Guazzelli in aula imprecò: “L’abbiamo letto sul Giornale di Sicilia signor presidente, noi non sapevamo nulla. Chi ha passato le notizie al giornalista Tedesco. Io ero due banchi dietro l’avvocato. Per un attimo il presidente mi guardò severo. Io continuai a fissare un punto indefinito che non aveva nemmeno forma, tanta era la tensione. Ma cosa dissero i tre? Giovanni Brusca, nell’interrogatorio reso il 3 maggio del 1997 alla Dda, riferì di avere appreso da un esponente agrigentino di Cosa Nostra, che a uccidere Guazzelli non furono gli stiddari. Angelo Siino escluse tassativamente che l’assassinio del sottufficiale venne eseguito dalla Stidda. «Nel corso di un tentativo di riappacificazione tra Stidda e Cosa Nostra avvenuto nelle carceri, Puzzangaro mi confermò l’esecuzione di alcuni omicidi, ma giurò, che lui e la sua organizzazione non c’entravano niente con l’assassinio». Dello stesso avviso Francesco Paolo Anselmo. Poi arrivò Pasquale Salemi che confermò e fece i nomi, tranne quello di suo cugino Joseph Focoso. La sentenza di assoluzione per i palmesi arrivò il 18 maggio del 1998. Si apriva un nuovo capitolo processuale sull’omicidio Guazzelli che portò a sei condanne all’ergastolo per i sabettesi Salvatore Fragapane e Giuseppe Fanara, l’agrigentino Salvatore Castronovo, il riberese Simone Capizzi, l’empedoclino Gerlandino Messina, il realmontino Joseph Focoso e una a diciotto anni per il pentito empedoclino Alfonso Falzone. Di seguito le rivelazioni di Pasquale Salemi, fornite durante l’udienza che si tenne nell’aula bunker del supercarcere “Pagliarelli” di Palermo e che, di fatto, scagionò definitivamente gli Stiddari che stavano per essere condannati all’ergastolo. Era la prima volta che Salemi parlava in un processo collegato da una località segreta dell’Italia settentrionale. Si scoprì solo dopo che Maraschino aveva dichiarato sì la verità, ma aveva evitato di fare i nomi di amici e familiari come Joseph Focoso e Gaetano Amodeo. Non fece neanche il nome di Alfonso Falzone, che fu quello che seguì Guazzelli e diede il via libera ai killer.
Ecco gli stralci dell’interrogatorio di Salemi:
Procuratore generale Santi Consolo: “Signor Salemi lei ha fatto parte di Cosa Nostra?
Salemi: “Sì”
Procuratore Santi Consolo: “Da quando?”
Salemi: “Prima ero solo un avvicinato. Dal 1990 mi hanno fatto uomo d’onore”.
Procuratore Santi Consolo: “Ha mai commesso reati?”
Salemi: “Sì, gli omicidi Iacono, Picarella e Triassi”.
Procuratore Santi Consolo: “Quando ha iniziato a collaborare?”.
Salemi: ”Dal maggio del 1997. Nel giugno successivo ho avuto i primi colloqui con il sostituto procuratore di Palermo Teresa Principato”.
Procuratore Santi Consolo: “Perché ha deciso di collaborare con la giustizia?”
Salemi: “Era una vita impossibile quella che conducevo. A un certo punto mi sono reso conto che uccidere delle persone, magari solo per un piccolo sgarro, non era giusto”.
Procuratore Santi Consolo: “Quando si trovava al soggiorno obbligato ad Alessandria della Rocca veniva a trovarla qualcuno?”
Salemi: “Sì, diverse volte venne Alfonso Falzone”.
Procuratore Santi Consolo: “Per quale motivo?”
Salemi: “Veniva a portarmi dei soldi che arrivavano dalla spartizione dei frutti delle estorsioni alle imprese edili”.
Procuratore Santi Consolo: “Di cosa parlavate con Falzone?”
Salemi: “Di tante cose”.
Procuratore Santi Consolo: “Avete mai parlato dell’omicidio del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli?”.
Salemi: “Sì un giorno venne a trovarmi e mi disse che c’era un grosso lavoro da fare che era poi l’omicidio del maresciallo Guazzelli”.
Procuratore Santi Consolo: “Come mai Falzone parlò a lei dell’omicidio Guazzelli?”
Salemi: “Non so perché lo disse proprio a me. Certamente vista l’importanza era un fatto che sapevano in pochi. Il maresciallo dava fastidio a Cosa Nostra e in particolare alle famiglie dell’Agrigentino. Era un carabiniere onesto che sapeva troppe cose”.
Procuratore Santi Consolo: “Come si decide un delitto così importante?”
Salemi: “In questi casi ci vuole un permesso speciale. Ci voleva l’ordine della regione di Palermo che doveva dare il benestare. Quando il benestare arrivava si poteva fare l’omicidio”.
Procuratore Santi Consolo: “Sa quali persone, in particolare, venivano contattate?”
Salemi: “No, forse quei Brusca che hanno arrestato a San Leone”.
Procuratore Santi Consolo: “Sa chi furono gli esecutori materiali dell’omicidio?”
Salemi: “Sì, Salvatore Castronovo, Giuseppe Fanara e Giuseppe Gambacorta”.
Procuratore Santi Consolo: “Chi sono Castronovo e Fanara?”
Salemi: ”Il primo è un uomo d’onore della famiglia di Agrigento il secondo è un uomo d’onore della famiglia di Santa Elisabetta molto abile con le armi”. Gambacorta non aveva incarichi era solo un soldato semplice”.
Parte Civile avvocato Moncado: “Il maresciallo Guazzelli era controllato negli spostamenti?”
Salemi: “Sì, sapevamo quando entrava e quando usciva dall’ufficio”-
Parte Civile avvocato Moncado: “Perché lei non partecipò al delitto?”.
Salemi: “Perché mi trovavo al soggiorno obbligato”.
Avvocato difensore Antonino Gaziano: “Nell’omicidio Guazzelli c’entrano gli Stiddari”.
Salemi: “No”.
Avvocato difensore Raimondo Tripodo: “Gli imputati in questo procedimento c’entrano nell’omicidio Guazzelli”.
Salemi: “No i palmesi non hanno avuto alcun ruolo nell’agguato”.
Con Riccardo Guazzelli negli anni a seguire ho un intessuto un rapporto di amicizia. Fu lui a chiamarmi, non si giustificò mai per quella telefonata. Ma per me non c’è mai stato bisogno. Lui era il figlio del maresciallo Guazzelli e quel giorno aveva visto sfuggire a una condanna gli uomini che credeva essere gli assassini del padre. Non c’era bisogno di nessuna giustificazione o di scuse. Semmai è questa terra che deve chiedere scusa a un carabiniere toscano che si è battuto fino alla morte per difendere la Sicilia. Ci sono storie che entrano nel cuore oltrepassando ogni schermo possibile. Anche quello, molto spesso, impenetrabile di un cronista.